Dicono gli esperti di sociologia e antropologia giapponese che le Sukeban hanno aperto la strada a quei pappamolli dei Bōsōzoku (le gang dei motociclisti giapponesi) e ai punk “yankii” che erano una sottocultura che mischiava stilemi punk, ribellione al perbenismo e un pizzico di cultura “trash” americana, che già a pensarli viene il sangue da naso. E quindi se bisogna essere ribelli, meglio seguire le donne, che a me la velocità su due ruote non piace e i capelli a cresta non incontrano il mio gusto. Nate negli anni 70, queste pazzerelle con il turpiloquio facile, che spaventavano cittadini e commercianti, erano la controparte femminile della Yakuza. E mentre quest’ultimi reclutavano sempre più uomini per creare una società corrotta e feroce, le ragazze si davano alla prostituzione, al furto e alle risse per strada. Ammazza che bad girls!Emarginate e respinte dal Giappone dell'era Showa, queste rivoltose si organizzavano in bande e se ne andavano in giro con catene e lamette sotto le gonne sputando in faccia alla borghesia giapponese. Avevano nomi lunghi e paurosi. Le "Tokyo's United Shoplifters" erano temute dalle commesse dei negozi di profumi, obiettivi preferiti delle loro ruberie. Sì, perché loro non volevano i campioncini delle creme, ma tutta serie anti-age idratante con il Kit Solutions Clear Skin System della Shiseido. :-PLe "Kanto Woman Delinquent Aliiance" terrorizzavano tutto l'Honshu su moto cromate. Già, perché stare dietro il sellino degli uomini era da sfigate, poi quelli puzzavano con l’ascella e non lasciavano mai decidere a nessuna l’itinerario della gita. E la mafia giapponese stava a guardare, invidiosa della loro sfrontatezza e del coraggio con cui sfidavano le rigide etichette giapponesi anche solo con un colpo di bigodino.(si facevano la permanente e la tinta!!)Nemmeno il patriarcato giapponese sopportava queste ribelli in gonnella che offendevano il buon gusto delle sciure in kimono facendosi beffa delle rigide e sessiste regole di abbigliamento dell’epoca. È difficile risalire all’origine del loro nome, anche se sembra che il termine Sukeban, sia stato coniato dalla Polizia. (女番 ragazza delinquente/boss ) Sta di fatto che, quando le fermavano, i poliziotti le indicavano sul registro come “presagio di rovina”. E alle ragazze doveva piacere tantissimo, perché non c’è gloria più grande di essere temute e ricordate dal proprio nemico. Tutto sembra sia nato per colpa di quella cavolo di uniforme scolastica alla marinaretta che omologava le studentesse giapponesi e le reprimeva nell’estetica e nell’anima.Non si sa chi fu la capostipite delle Sukeban, ma per fare incazzare presidi e professori, le prime sovversive si rimboccarono le maniche, si tinsero i capelli e sostituirono quegli antiestetici mocassini con delle Converse Made in Usa. Non contente allungarono le gonne, forse per nascondere kalashnikov e machete e misero in bella mostra la pancia accorciando le camicie.In quegli anni la Carrà scandalizzava tutta l’Italia mostrando l’ombelico. Poi iniziarono a fumare nei bagni delle femmine, sicure di rimanere impunite perché in Giappone non esistono i bidelli che fanno la spia. Ma c’era sempre la pentita di turno che andava a riferire al professore: “C’è Mariko che si è accesa una Marlboro al gabinetto”. E così volavano schiaffi e sospensioni. Stufe di prenderle tra il lavandino e il corridoio, le Sukeban decisero che era il momento di scendere in strada.Fuori dai confini della scuola il look trasgressivo - che poi così tanto trasgressivo non era - lo spirito iconoclasta e gli atteggiamenti spavaldi divennero presto espressioni di ribellione nei confronti dell’intera società.Orde di fanciulle iniziarono a riunirsi in gang tutte al femminile che provocavano e aggredivano chiunque capitasse davanti ai loro occhi, ma senza un vero e proprio obiettivo.E nella noia generale si viveva di taccheggio e tafferugli e le più sfortunate finivano nel girone del meretricio, che tanto bello non era.Nonostante il disprezzo delle regole, ogni gang aveva dei codici da seguire - parliamo pur sempre di una subcultura nata nel paese dei precetti.Non bisognava parlare con le bande rivali, nessuna doveva insultare le anziane e nemmeno scoparsi il fidanzato di un’affiliata. La droga era vietata anche se ogni tanto scappava una sniffata di colla.Se qualcuna trasgrediva veniva bruciata con il muccino della sigaretta o peggio linciata da tutto il gruppo. E fate conto che c’erano gruppi composti anche da 20.000 ragazze. A ogni gang piaceva apparire con uniformi appariscenti che ne identificassero l’appartenenza. E così sarte e improvvisati stilisti disegnavano e cucivano giacche e giubbini con i nomi dei gruppi facendo girare l’economia.Non erano certo cappotti di Armani, però quei capi sono entrati di prepotenza nella storia del costume giapponese come simbolo di ribellione (e anche un po’ di fancazzismo). Persino il cinema si accorse delle Sukeban. Molti registi cominciarono a raccontare le loro storie in film che fecero nascere un genere: il Pinky violence, dove conturbanti ragazze armate di taglierini e di YoYo affilati sfidavano maschi frustrati e altre gang. Negli anni 80 facevano il pieno le sale che proiettavano queste pellicole. Prodotti di intrattenimento di massa costruiti su anti-eroine sempre più sexy che contribuirono a spegnere la miccia di un fenomeno nato con un grande potenziale deflagrante. E chissà come giravano le ovaie alla vecchia Mariko – che 10 anni prima fumava nei cessi della scuola e ruttava l’Ave Maria con un sorso di sake – a vedere le sue compagne descritte come ninfette alla moda.Ovviamente il fenomeno delle Sukeban ispirò anche il mondo dei manga. Naoko Takeuchi, la disegnatrice di Sailor Moon, immaginò Makoto Kino – alias Sailor Jupiter – come una delinquentella fumatrice appena uscita da una gang. Non ne raccontò mai esplicitamente la storia, ma lasciò trapelare le sue origini attraverso segni distintivi: le maniche arrotolate, la gonna lunga, il carattere forte e determinato. In una scena del Manga, la minorenne Makoto esce tranquillamente a tarda notte per comprare della birra da un distributore automatico. Dopo di loro la trasgressione femminile prese altre vie e le rudi Sukeban vennero soppiantate dalle zuccherose lolite di Harajuku. Meno schiaffi e più rossetti colorati.Mentre, ahimè, la fallocrate Yakuza ancora sopravvive.Gtvb Cover: Luca Sampieri X 21Art
È stato presentato in anteprima assoluta l’anno scorso durante la rassegna cinematografica dell'Altro Giappone al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.Il documentario Kanpai di Lorenzo Fodarella è un lungo viaggio fatto di incontri, scambi e racconti. Guidati dal loro amico ed importatore Hisato Ota, Antonio e Daniela di Gruttola, vignaioli del sud Italia, partono per il loro quarto viaggio in Giappone.La prima tappa è Matsuyama, dove incontrano Hiroki Fukuoka, nipote del celebre Masanobu, che condivide con loro la sua personale interpretazione del pensiero del nonno, a partire dal concetto di Mui shizen “Vivere in simbiosi con la natura”. Masanobu Fukuoka, infatti, non si limitò a promuovere un metodo di agricoltura “naturale” ma, agli occhi del nipote, volle istruire le nuove generazioni ad uno stile di vita migliore, volto a riportare la natura alla sua perfezione originaria, prima che l’intervento dell’uomo la deturpasse.Attraverso le tappe successive vedranno da vicino alcuni esempi di aziende e realtà “naturali”, finalizzate alla produzione di alimenti più sostenibili dal punto di vista degli sprechi e qualitativamente superiori a quelli della concorrenza. Ad esempio, visiteranno uno stabilimento per la produzione di salsa di soia e miso la cui innovazione principale sarà un ritorno alla tradizione, evidente in scelte poco funzionali dal punto di vista delle quantità prodotte, come lunghe fermentazioni e materie prime scelte accuratamente. Allo stesso tempo, però, questo “svantaggio” per l’azienda permetterà, a detta del produttore Kajita Shoten, di ottenere il risultato più importante: “Far gioire il cuore e il corpo delle persone”.Un altro esempio sarà a Fukuoka, in uno stabilimento per la produzione di Shochu, un distillato tradizionale giapponese prodotto principalmente nel Kyushu. Qui le materie prime saranno talmente importanti da essere autoprodotte dallo stabilimento stesso, attivando un ciclo di riciclo infinito in cui gli scarti della produzione verranno utilizzati come fertilizzanti.Terminate le visite ai vari stabilimenti, dopo aver alzato i calici e aver brindato esclamando “Kanpai!” (equivalente del nostro “Cin”), Antonio e Daniela avranno un confronto finale con la loro guida sui vini “naturali”. In particolare, presi dalla curiosità scaturita dal viaggio appena terminato, chiederanno chiarimenti sulle modalità attraverso cui riconoscere un vino naturale e uno ordinario.Hisato Ota in questa occasione, risponderà loro con una riflessione che sembra quasi la morale dietro questo lungometraggio.Magari visivamente non ci sarà possibile riconoscere un vino naturale da uno comune, ma è proprio per questo che dobbiamo imparare a vedere anche ciò che non riusciamo a vedere, cercando di diventare parte della natura stessa.(via laltrogiappone) L'Altro Giappone è diventato distributore internazionale di Kanpai. Il Documentario è stato inserito nella selezione ufficiale del Festival LIFT- OFF di Sydney, online dal 15 novembre al 13 dicembre 2021.Qui sotto l'intervista di GiapponeTVB a Lorenzo Fodarella e Daniela di Gruttola. Il viaggio continua.Gtvb
Dal 29 Settembre al 3 Ottobre 2021 ritorna la Japan Week nella prestigiosa cornice del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.Il tema di quest'anno è il rapporto fra Uomo e Natura nella società giapponese contemporanea.Mostre, prime visioni, documentari e talk. Ci sarò anche io in veste di moderatore. Quest'anno presenterò il film "Koi" di Lorenzo Squarcia (QUI la mia intervista) e il nuovo libro di Antonio Moscatello "A tutto Giappone". Mi raccomando munitevi di Green pass e venitemi a salutare. Mi sono anche tinto i capelli di grigio. :-P Il menù è ricchissimo. Per info e prenotazioni cliccate QUA. GtvbPer me, il grande terremoto del Kantō fu un’esperienza terrificante, ma di un’importanza capitale. Mi rivelò non solo gli straordinari poteri della natura, ma anche gli straordinari abissi che si nascondono nel cuore umano. Tanto per cominciare, il terremoto sconvolse la mia vita trasformando istantaneamente il mondo in cui vivevo. Akira Kurosawa