QUANDO SHIBUYA PIANSE

Il tempo in Giappone si dilata.
La mattina diventa una settimana, il pomeriggio un mese e la sera un weekend.
Sei stimolato ad ogni cavalcavia e un passo può diventare un’ora.
Un po’ perché devo aspettare la mia compagna di viaggio che non smette di fare shopping e fotografare ogni vetrina, un po’ perché spesso mi fermo ad osservare le persone.
Mancano due giorni alla nostra partenza. E noi non ce ne siamo accorti.
La nostra camera sembra il deposito di qualche centro per bambini disagiati: ci sono magliette con stampe retrò che ci ricordano la nostra giovinezza, pupazzini vari, peluche pieni di acari, souvenir di dubbio gusto, miliardi di calzini manco fossimo dell’ordine delle Carmelitane Scalze, patatine, caramelle, trick e track e bombe a mano! :-P
La Piera ha spedito i suoi abiti e l’enciclopedia completa per diventare una ragazza di Harajuku.
Meno male che ci ha aiutati il nostro amico Michele perché alle poste ci guardavano come dei terroristi.
Io invece ho deciso di donare i miei abiti.
Ho domandato a Mia san se potevo lasciarli a qualche senza tetto.

“È maleducazione”
“Ma sono ancora belli”
“Però sembra che tu fare carità”
“Poverini stanno sempre al freddo e al gelo”
“Io paura”
“Non esiste un centro di smistamento vestiti?”
“Io non conosco”
“Non esistono cassonetti della Caritas?”
“No, non ci sono neanche i cestini in Giappone”

Le mie opere pie non sono andate a buon fine.
Mi toccherà riportarli in Italia.
Quando devi ripartire tutto diventa più triste.
Il cielo si fa grigio, i passanti sembrano camminare più velocemente e i negozi, chissà perché, non hanno più quel fascino del giorno prima.
Dobbiamo incontrarci con Mia san a Shibuya per riconsegnarle il cellulare.
Siccome siamo in anticipo, Piera ha voluto salutare tutti i commercianti del quartiere, compreso i visual e gli addetti alle pulizie dei negozi.
Abbiamo scattato l’ennesima foto alla statua di Hachiko, attraversato venti volte lo Shibuya Crossing, ascoltato i mille idiomi da Starbucks e contato i topi che cercavano di entrare da Mc Donald’s.

 In un bar abbiamo incontrato persino uno Yakuza. O almeno nella nostra mente era uno Yakuza.
Aveva un abito gessato, un po’ anni 90, sicuramente 80% acrilico, delle catene al collo con teste di diavoli incazzati, scarpe di vernice con cerotti sui talloni per le fiacche, capelli tiranti indietro con tanto di codino, sigaretta sempre accesa e computer per gestire su Excel gli affari della mafia.

“Ma è occidentale!”
“Forse la Yakuza ha aperto le frontiere anche agli stranieri”
“Secondo me è un cosplayer”

Rilakkuma

È strano come in un paese così educato, riservato e di buon gusto a volte trovi strani personaggi che ribaltano il luogo comune.
Sta di fatto che a un certo punto sono entrati degli arabi che hanno iniziato a parlare a voce altissima, facendo scappare tutti i clienti giapponesi, sicuramente razzisti e in cerca di silenzio.
Siamo rimasti noi, l'aspirante malavitoso e il circolo delle bocce di Dubai.
Da questo viaggio ci portiamo a casa un sacco di esperienze.
Siamo stati fortunati. Sono quasi due mesi che girovaghiamo in cerca della Hello Kitty perfetta.
Ho tentato in tutti modi di scrivere ogni centimetro che ho visto, con fatica e stanchezza.
Le metropolitane giapponesi hanno un potere soporifero e appena prendi quella per tornare a casa cadi in trance.
Ho perso virgole e maiuscole, guardato tanta tv e scoperto che Girolamo Panzetta, l’italiano più famoso in Giappone, (se non sapete chi è, leggete QUI l’intervista che mi ha concesso) è un uomo dalle mille risorse, che ha lasciato il suo paese buttandosi in un buco nero complesso e dalle mille regole.
Mi sono innamorato di ogni ragazza che ho incontrato ad Harajuku, ma non ho scoperto i segreti della Geisha. Ho parlato con un clochard, con una commessa di un centro commerciale e sono stato bistrattato dagli inservienti di Mandarake, il negozio di toys e fumetti più caro di Akihabara.
Mi sembra sia passato un anno. Siamo stati fortunati e la mia amica Piera.
La cosa che mi rattrista è che non so se riuscirò a ripetere un’esperienza del genere. Ci vuole coraggio, ahimè denaro e quell’insana voglia di lasciarsi tutto alle spalle.
Chissà se Girolamo, Lorenzo, Paolo, Michele e tutti gli italiani che ho conosciuto hanno un rimpianto, oppure il Giappone li ha inghiottiti nel suo sistema, cancellando qualsiasi ricordo della loro vita precedente.
Davanti ai Kanji mi sento umiliato, il non comprendere m’infastidisce.
Il Giappone ti fa sentire solo e amato allo stesso momento. Vorresti qui tutti i tuoi amici e magari qualche membro della tua famiglia, ma solo per egoismo e per sentirti protetto.
Michele mi diceva che i primi tempi dormiva nei Manga Cafè e che mangiava pochissimo per risparmiare, Veronica invece digiunava, mentre Marco soffriva di insonnia per paura dei terremoti.

“Hai finito di scrivere cazzate?”
“Scusa Piera”
“Cerchiamo di portarci a casa solo ricordi belli”
“Forse meglio chiamare Mia san”
“Tanto è in ritardo come al solito, se ti va possiamo fumarci un intero pacchetto di sigarette alla menta e infastidire anche noi gli egiziani al bar”

A Kyoto si cammina tantissimo, anzi in Giappone si cammina tantissimo. Non so come facciano quelle povere impiegate con i tacchi.
Io e la Piera abbiamo messo in valigia un sacco di carte di caramelle, che sono vere opere di grafica pop surrealista. I volantini sono diventati per noi quadri da appendere all’ingresso di casa e i negozi a 100 Yen si sono trasformati in alberi della cuccagna.
Come ci piace il Giappone dove anche la finzione funziona, dove le commesse ti sorridono e le spine dorsali sopportano inchini fino a 90°.
Se potessi vivere qui sceglierei una casa vicino a un parco, perché mi piace guardare la gente che fa joggin e quelli che puliscono la pipì dei cani con le bottigliette d’acqua.
Il Giappone mi ha fatto riapprezzare il rosa, le ciabatte e persino i cioccolatini al gusto banana.
Mi commuovo quando qualcuno per strada si ferma per aiutarmi e mi domanda in giapponese: “Da dove vieni?”
E come al solito i bei pensieri vengono interrotti.

Shibuya

“Sumimasen io in ritardo, scusate mi sono persa”
“Buonasera Mia san, come hai fatto a perderti?”
“A me non piace Shibuya, troppo casino, poi ci sono i topi”
“Che carini…”
“Vanno nei ristoranti poi prendi RETTO SPILLOSI”
“Non so che malattia sia, ma detta così ricorda una pratica sadomaso”
“Sapete che barista mi ha detto che voi gentili perché venite sempre qui”
“Veramente?”
“Però lui triste perché dice che a fine mese bar chiude”
“Beh certo… è frequentato da apprendisti Yazuza e stranieri rumorosi”
“Veramente?”

Abbiamo ringraziato Mia san per la sua pazienza. Le abbiamo regalato una collana, un foulard e una piccola borsa, ma abbastanza grande per contenere una mappa e un orologio.
Mentre ci abbracciavamo davanti a dei salarymen impietriti dal nostro comportamento oltraggioso ha cominciato a piovere.
Mia san ci ha guardato con gli occhi lucidi.

“Anche cielo piange la vostra partenza”

Poi il caos di Shibuya se l'è portata via.

Bene ora cosa facciamo?

“Amico io devo finire di fare le valigie”
“Ma è tre giorni che disfi e rifai le borse”
“Voglio dividere le cose per cromia”

Così mi sono fatto l’ultimo giro per negozi. Questa volta da solo. Ho comprato mille souvenir dell’ultima ora e ho cercato un paio di scarpe. Ma davanti al mio piede i giapponesi indietreggiavano inorriditi.
Ho il 45 mica l’elefantiasi.
Meno male che alla Nike hanno il reparto “Piedoni occidentali che vogliono assomigliare a Cenerentola”.
Anche io finalmente posso tornare a casa con qualcosa “Made in Japan”

Studente giapponese

“Comunque le ho viste anche in Italia”
“Tu rovini sempre i miei sogni maledetta”
“Cerca di fare il bravo oppure domani non ti porto al Karaoke”

Già. Oggi non è l’ultimo giorno. Mi sono sbagliato.
Siamo fortunati io e la mia amica Piera.

GiapponeTVB

Foto cover: Michele Angeloro ©