È il mio ultimo giorno a Tokyo, dopo essere stato bistrattato e abbandonato dalla mia guida personale sul ponte di Harajuku (QUI), ho ancora poche ore prima che la capitale del Giappone si trasformi in zucca, ma soprattutto un solo un obiettivo: comprare i souvenir per parenti e amici.
Le mie zie vogliono delle stoffe per cucire chissà che cosa, i miei cugini sognano i coltelli Miracle Blade, anche se non sanno che sono di origine tedesca però “made in China” e poi c’è la mia ex compagna di viaggio, Lady Disturbia (QUI una delle sue avventure) che pretende almeno 10 doni dal Sol levante.
Non ho moltissimo tempo. Ormai ho rinunciato a trovare qualcosa per me: ho il piede troppo grande, le spalle troppo larghe, qui una XL equivale a una M striminzita.
Persino i pantaloni trendy di Uniqlo che ti arrivano sopra alle caviglie, su un occidentale si trasformano in pinocchietti fuori moda.
Ho tentato anche di prendermi un paio di Vans tarocche color fetta di anguria, ma non esisteva una numerazione normale, andavano dalla S alla XL.
Tokyo è veramente la capitale del souvenir, il problema è che mentre cammini verso “quel negozietto che vende le calamitine” inizi a sbavare dietro a vetrine che non avevi ancora notato.
Sono stato tentato da una camicia di una marca famosa solo qua, che io chiamerò simpaticamente Giucas Casella, perché mi ha ipnotizzato con la sola imposizione delle maniche.
“Sumimasen commessa con una tinta di capelli strana, avete una taglia consona al mio fisico atletico?”
“Yes! L size”
Peccato corrispondesse a una L della Chicco.
“Mi scusi dolce commessa, ma è troppo small”
“Do you want M size?”
Mi sa che non è tanto sveglia. Forse la tinta le ha bruciato qualche neurone.
Però sono stato baciato dalla fortuna, nel camerino ho trovato una luccicante moneta da 1 Yen, così mi posso comprare un “bel niente”!!
Meglio perdersi per le vie di Omotesando, magari posso fare la carità agli angoli delle strade e tra una settimana permettermi un fazzoletto usato di Comme des Garçons.
Drin drin
“Ciao sono Mia san, ti ricordi che abbiamo cena di addio?”
“Non mi ricordavo più! Perdonami”
“Dove sei?”
“Sto cercando dei regalini, però non so dove andare”
“Vai a Oriental Bazar a Omotesando”
“Non mi piace, vendono delle cinesate e kimono sintetici che prendono fuoco se superi i 36 gradi corporei”
“Allora tu risparmia, così puoi comprare qualcosa per te”
Forse ha ragione la mia amica giapponese. Posso inventarmi una scusa e dire che hanno smarrito la valigia all’aeroporto.
Alleggerito da questo pensiero mi sono diretto a piedi verso Shibuya.
È una passeggiata immersa in boutique strane. Le vie laterali ti regalano piccole case, ragazze alla moda e fashionisti dell’ultima ora. Il tramonto rende la malinconia arancio e io non so con che colore abbinarla e poi chissà perché ogni volta che finisco una vacanza mi chiedo: “E se rimanessi?”
Sicuramente diventerei povero in una settimana, un povero con degli abiti stretti e gli alluci strozzati in delle scarpe sparute.
Potrei inventarmi un business e creare una linea di abbigliamento per occidentali che vivono in Giappone. Non andranno più in giro con i polsini ai gomiti e le giacche sbottonate, anche loro riusciranno a camminare a testa alta nelle stazioni.
Poi ahimè ho fatto i conti con la realtà. Qui se sgarri di un solo giorno in più rispetto ai tre mesi previsti dal Visto turistico ti vengono a prendere con gli elicotteri e ti rimandano al mittente su un volo in terza classe che fa sette scali, giusto perché devono farti soffrire fino all’ultimo.
Mia san, il suo fidanzato e un altro mio amico giapponese mi stanno aspettando davanti alla statua di Hachiko. E io invece di arrivare puntuale sono impazzito al Disney Store davanti ai peluche di Stitch in Kimono.
Mi sa che se rimango qui, altro che clochard. Regredisco e m’internano su qualche isola sperduta con delle bambole da pettinare.
Drin drin
“Dove sei???”
“Giuro che arrivo! Sto spendendo i miei ultimi spiccioli all’Ufo Catcher. Voglio vincere un giocattolino”
“Tu pazzo! Cosa vuoi mangiare?”
“Okonomiyaki”
“Sicuro che non vuoi Ramen?”
“No!”
“Preferisci Sushi?”
“No”
“Allora perché vuoi Okonomiyaki?”
“Mia san hai sbagliato anche tu la tinta?”
La mia ultima a cena a Tokyo.
Abbiamo scelto una bettola, dove il proprietario stava scopando via dei topi dall’ingresso. Pensava di non essere visto.
Entriamo e speriamo di non prendere la leptospirosi o fuggiamo al Mc Donald’s più vicino?
Ma chi se ne frega, mal che vada morirò fra atroci sofferenze nel mio hotel da ricconi e lascerò disposizioni funerarie al Concierge.
Che il mio corpo venga fatto cremare e le ceneri sparse nel negozio 6%Dokidoki di Harajuku, il tempio del decoraboy, che sono la risposta maschile alle lolite giapponesi. La mia anima vagherà fra accessori color arcobaleno, calze fluorescenti e unicorni invisibili.
“Vuoi Kaki?”
“Grazie Mia san, ma preferisco le ostriche fritte”
“Ma si chiamano Kaki”
“E i cachi come si chiamano?”
“Anche quelli Kaki”
“Ma hanno lo stesso nome?”
“Come voi in Italia con parola – pero – però”
“0_O”
Ho mangiato 4 porzioni abbondanti di Okonomiyaki. E fa niente se la cucina sembrava la fogna di Bombay e i topi fuori dal locale ballavano l’Alligalli, fa niente se le bacchette avevano l'aria di essere state ciucciate da almeno 50 persone e l’acqua naturale puzzava di cloro, quel che conta è la compagnia. Perché almeno hai qualcuno che può portarti a fare una lavanda gastrica al Pronto Soccorso. :-P
Ultimo giro da Donquijote il grande negozio supremo dove ti rubano la coscienza e t’impiantano quella di un calzino. In un secondo sono riuscito a comprare tutti i souvenir per i miei parenti accattoni, perché mi sentivo in colpa a tornare senza un regalino.
E’ che cerco di allungare il tempo dell’addio con qualsiasi scusa.
Il tempo di comprare le sigarette, il tempo di fumarne una, il tempo per fare pipì da Starbucks!
E invece mi tocca salutare.
Mia san ha iniziato a piangere. In questi anni gli sono stato attaccato come una cozza, cercavo di strapparla a quelle regole giapponesi che le impongono un’ etichetta rigida.
L’ho obbligata a dire di No, a prendermi sottobraccio come due comari quando passeggiavamo per le strade di Shinjuku, l’ho convinta, senza traumatizzarla, ad esternare i suoi sentimenti e ogni tanto l’ho messa a disagio.
Mi ha abbracciato e mi ha dato un bacio sulle orecchie.
Eppure le avevo spiegato che di solito ci si bacia sulle guance.
“Mia san ricordati di non mangiare in tre giorni il vasetto di Nutella da 630 grammi che ti ho portato”
Questo è stato il mio addio.
Poi lei e il suo fidanzato hanno iniziato a camminare verso lo Shibuya Crossing tenendosi per mano. Non lo avevano mai fatto.
Forse qualcosa è cambiato. La mia piccola rivoluzione giapponese è iniziata con un gesto d’amore oppure sono io che smesso di guardarli a testa in giù. :-P
Neanche il tempo di asciugarmi il moccio dal naso che sono stato distratto da i Gacha Gacha, le famose macchinette che dispensano pupazzetti in ogni angolo del Giappone.
C'è la linea di portachiavi con i gatti che vomitano! Chi se ne frega degli addii! :-P
Gtvb