Mari Katayama è un’opera d’arte vivente.
Reinventa se stessa ogni volta e muta a seconda dell’estro creativo. È altissima, sorridente, con quell’aria Japan cool che piace tanto agli occidentali.
Fotografa, pittrice e artista distopica.
Le sue opere sono scatti che la trasformano in creature oniriche. A volte è un polipo dalle mille braccia, spesso una principessa bionica, ogni tanto una bambola persa in stanze disordinate.
Mari non nasconde quello che le manca. Anzi, ne ha fatto la sua cifra stilistica.
Ha una mano che ricorda la chela di un granchio e cammina su protesi d’acciaio.
I set immaginifici nei quali si ritrae mettono in scena le sue fantasie e sono pieni di oggetti che lei stessa realizza, come le sue mille gambe di pezza e le scenografie tra il kitsch e il kawaii.
Nata nella prefettura di Gunma nel 1987 si laurea alla Tokyo University of the Arts, specializzandosi in Intermedia Art.
Negli ultimi anni le sue foto sono state esposte in tutto il mondo ed è stata una delle artiste che si sono fatte notare di più alla 58° Biennale di Venezia nel 2019.
Difficile distogliere lo sguardo dai suoi occhi.
Mari nella sua opera affronta a suo modo il tema della disabilità che in Giappone è per tanti aspetti ancora un tabù.
Durante le Olimpiadi di Tokyo 2021, Mizuki, Project manager di Google Japan che si muove sulla sedia a rotelle, rispondeva così a un’intervista per la BBC:
“Vedo ogni giorno molte persone con disabilità in giro per Tokyo, ma credo che per l'inclusione ci sia ancora molta strada da fare. Scuole, posti di lavoro, aree pubbliche, sono luoghi spesso poco accessibili e questo riduce le opportunità di crescita personale e partecipazione, ma soprattutto persiste un forte stigma intorno alle persone disabili”
La società giapponese è per molti aspetti poco inclusiva: si privilegia il buon funzionamento del sistema collettivo a scapito delle singole individualità. Si premia il conformismo e si emarginano le diversità.
Mari Katayama è innamorata di Modigliani, delle sue figure eteree dalle proporzioni inusuali.
L’ arte “gaijin” l’ha forse portata a riflettere su cosa fosse il “corpo corretto”, quello che la società ci obbliga ad avere.
Un corpo il più possibile funzionale, ma che a Mari non basta.
La possibilità di camminare autonomamente grazie alle protesi è certamente un importante punto di arrivo, ma non può essere considerato l’unico obiettivo.
Mari rivendica il diritto di esprimere la propria personalità, di ricercare la bellezza al di là delle differenze, di scegliere un proprio universo estetico in cui ritrovarsi.
Da qui nasce il suo progetto “High Heel”: camminare su tacchi alti.
In collaborazione con ingegneri e designer ha realizzato protesi che le consentono di indossare scarpe tacco 12.
“Con le mie gambe artificiali sono alta un metro e ottanta. Quando indosso i tacchi mi si nota subito e svetto sulla folla. Sono certa che vedendomi così qualche persona con disabilità potrebbe pensare ‘Ehi, guarda quella ragazza pazza. Perché non posso indossare anche io una bella giacca?’ Sarebbe bello se nei cataloghi di protesi ci fossero anche modelli con i tacchi, per offrire una scelta più ampia”
Per Mari la moda è una possibilità che non deve essere preclusa a chi è dotato di un corpo non convenzionale.
In parole povere fanculo la tuta!
“Tutti tranne me sono i miei insegnanti” diceva lo scrittore Eiji Yoshikawa, figlio di un samurai e storico di fama mondiale.
E queste parole sono il motto di Mari Katayama, eterna e coraggiosa alunna votata all’arte.
Le sue opere potete vederle all'interno della mostra Japan_body_perform_live al Pac di Milano fino al 12 di Febbraio.
QUI per info.
Gtvb
Cover: ©MariKatayama
immagini: ©MariKatayama
Instagram: @katayamari