Dal 15 al 18 giugno a Milano sfila la moda maschile e scopriremo come vestirci nell'estate 2020.
Così ho invitato a cena Antonio Mancinelli – caporedattore di Marie Claire, scrittore e insegnante, profondo conoscitore del mondo del fashion, della sua storia e degli aspetti culturali – per scoprire le differenze fra la moda giapponese e quella occidentale.
Antonio è un uomo di grande stile, impeccabile anche per un'occasione informale. Ha un eloquio coinvolgente e appassionato, colto senza essere erudito, denso di contenuti ma leggero nella forma, abbiamo fatto una lunga chiacchierata annaffiata da acqua gasata S. Pellegrino, una delle più vendute in Giappone.
Buona lettura.
Nella moda in passerella per la prossima estate possiamo ritrovare echi dall’Oriente?
«Secondo me in tutta la moda contemporanea, non solo in quella che sfila in questi giorni, si ritrovano profonde influenze orientali. Ma devo dire anche viceversa: esiste una sorta di osmosi fra la moda giapponese contemporanea e la moda occidentale che non passa dalla riproduzione anastatica dei modelli quanto piuttosto dalla reciproca contaminazione delle modalità di approccio.
Pensiamo ad esempio a Giorgio Armani, il più grande stilista italiano, che ha fondato la sua estetica su un immaginario molto giapponese: la sua moda è funzionale, semplice, estremamente raffinata, se vuoi anche minimale, con una scelta di colori sempre pacati, che richiamano la natura.
Oppure a Valentino che da sempre prende dal Giappone la parte più cromatica: il rosso Valentino altro non è che il rosso lacca.
Pier Paolo Piccioli, attuale direttore creativo della Maison Valentino, per l’ultima sfilata fatta a Tokyo, la pre-fall 2019, ha collaborato con Undercover, Yohji Yamamoto e Doublet. Una sfilata made in Japan
Per quanto riguarda invece l’influenza occidentale sull’Oriente penso a Issey Miyake, fra i primi a guardare all’Italia per la ricerca dei tessuti.
Nei primi anni Ottanta, mentre Miyake, Yohji Yamamoto, Rei Kawakubo (Comme des Garçon) sconvolgevano le passerelle europee con un’estetica completamente diversa in relazione al corpo, alla taglia, alla forma e alla funzione, i primi a recepire l’importanza dei nostri marchi e ad iniziarne l’importazione furono proprio i giapponesi.»
Quali sono le principali caratteristiche che distinguono l’approccio orientale alla moda?
«Il concetto, per esempio, del rapporto con il corpo. In Giappone non c’è la dittatura della taglia: esistono solo quattro misure indicate con numeri dall’1 al 4. Però poi l’abbigliamento risulta estremamente elegante, senza costringere a un particolare tipo di fisicità. Trovo questo molto affascinante.
Altro esempio è il concetto di forma e funzione per cui se sul vestito c’è qualcosa è perché serve e non è solo per decoro.
In Giappone poi, tradizione e modernità convivono senza contraddizione. In metropolitana puoi vedere una accanto all’altra la signora con il kimono tradizionale e la ragazzina punk.
E, paradossalmente, tutte e due appaiono bellissime, elegantissime e contemporanee anche a noi occidentali che usualmente le percepiremmo come molto lontane.
Credo che questi aspetti del rapporto giapponese ai vestiti ci abbiano insegnato molto.»
Fra i brand italiani di oggi quale a tuo parere è più vicino alla sensibilità e al gusto giapponese?
«Penso a MSGM, che nelle ultime collezioni ha usato colori molto forti, stampe di fumetti e cartoni animati iconici per look che ricordano le ragazze di Harajuku. Oppure c’è questo nuovo marchio M1992 di Dorian StefanoTarantini.
Un altro marchio che usa gli stilemi giapponesi in maniera coltamente ironica è Gucci. Alessandro Michele mette il kimono sui jeans strappati, però lo lascia nella sua originalità. Una rivisitazione creativa che restituisce un simbolo della cultura giapponese senza modificarlo. Di Gucci piacciono molto anche T-shirt e felpe che non scoprono troppo il corpo: in Giappone non funziona un discorso troppo sexy e della nostra moda amano quella più romantica, più semplice o quella più ironica.
Allargando gli orizzonti fuori dai confini italiani, penso a Paul Smith, in Giappone una specie di rockstar. Ai giapponesi piacciono molto le sue righe colorate, divertenti, molto lievi.»
Quali sono gli stilisti giapponesi che sono riusciti a imporre il loro stile sul mercato occidentale?
«Ci sono state varie epoche, varie ere addirittura. Kenzo fu bravissimo. Iniziò a lavorare a Parigi negli anni Settanta e a portare l’abbigliamento tradizionale giapponese in un contesto assolutamente europeo. Di lui si diceva fosse il più parigino degli stilisti giapponesi e il più giapponese degli stilisti parigini.
Negli anni Ottanta ci fu il boom del famoso look post atomico: Rei Kawakubo di Comme des Garçons, Issey Miyake e Yohji Yamamoto promuovevano un’estetica del tutto contraria alla proposta degli stilisti occidentali. Mentre a Milano sfilava Versace con tutte queste biondone truccate, Rei Kawakubo portava in passerella modelle senza trucco o che addirittura sembrava fossero state prese a pugni. Ci furono collezioni in cui non si capiva dove iniziava e finiva un vestito. Abiti che ricordavano enormi sacchi con vari buchi dove poter infilare la testa a seconda della propria interpretazione. Negli anni di Regan e di una moda fatta per donne potenti, fu un vero uno shock.
Nei primi anni Novanta ci fu una leggendaria sfilata nella quale Rei Kawakubo deformò con imbottiture il corpo delle modelle che sembrava avessero tre natiche, quattro seni. Una collezione che metteva in discussione lo stesso concetto di sensualità e la percezione del corpo femminile. In una delle sue rare interviste Rei Kawakubo mi disse: “Ho iniziato a fare moda come forma di psicanalisi, perché sono nata nel periodo più buio del Giappone: quello post bomba atomica”. Io ho avuto la fortuna di intervistarli tutti e tre e come Rei, anche Miyake e Yamamoto hanno trasferito nei loro vestiti il dolore e la sofferenza vissuti come conseguenze della guerra.
Un’estetica del disturbo alla quale, ad esempio, Prada deve molto.
Un’altra cosa che dobbiamo a loro è l’uso del nero, imposto non per azzerare quanto come un colore legato alla ripartenza.»
Quali sono gli stilisti giapponesi che secondo te sono da tenere d’occhio?
«Io sono un feticista dei nuovi marchi giapponesi. Da un lato ci sono quelli che cercano di mandare avanti le antiche tradizioni tessili. Mi viene in mente Blue Blue Japan che grazie a internet è riuscito a farsi conoscere su larga scala. Non molti sanno che il Giappone è la patria del denim. Lì puoi trovare il miglior jeans in circolazione. E Blue Blue Japan utilizza antiche lavorazioni giapponesi su abiti prettamente occidentali: per esempio la tecnica boro – una forma di rammendo artistico che ricorda un po’ la tecnica kintsugi della ceramica – su blazer e giacche.
Dall’altra parte ci sono marchi profondamente contaminati dall’Occidente. Segnalo Needles che lavora sul concetto di decostruire l’americanità. Uno dei pezzi più venduti è la classica camicia a scacchi da boscaiolo fatta con strisce di altre camicie tagliate e poi rimontate. Un risultato bellissimo.
Mi piace tantissimo anche Sacai, sofisticato brand disegnato da Chitose Abe, una stilista bravissima nella ricostruzione/decostruzione dell’abbigliamento americano.
Dietro a questo concetto ci puoi vedere una presa di coscienza della colonizzazione americana post seconda guerra mondiale.
Poi ci sono Kapital e Kolor, molto ricercati. Nel loro classico abbigliamento maschile c’è sempre qualcosa che non quadra: ad esempio ho un abito di Kolor, blu, ma tutto di maglia, che scombussola il sistema con risultati interessanti.
C’è un enorme ricerca e secondo me anche un aspetto psicologico, un tentativo di fare i conti con un Occidente che amano e temono.
Detto questo a me piace tantissimo e vesto Issey Miyake. I suoi vestiti plissettati si mettono via torcendoli. L’idea è che si possa partire per un viaggio anche con una borsa piccola senza preoccuparsi che il vestito si sgualcirà. La trovo un’intuizione geniale nata da un concetto di comodità e mancanza di spazio.
Se si va oltre l’abito, penso a fenomeni come Muji che crea oggetti, vestiti e accessori migliori per qualità rispetto ai grandi marchi di fast fashion e capaci di resistere al tempo e alla moda.»
A Milano sta per arrivare anche Uniqlo. Diciamo finalmente?
«Uniqlo è già un fenomeno a Londra e a Parigi. Deve il suo successo alla proposta di capi che non c’erano: vedi ad esempio i piumini super leggeri e sottilissimi da mettere sotto la giacca. Certamente avrà successo anche qui in Italia.
Con Uniqlo si può essere comunque eleganti senza copiare il lusso, come invece fanno molti altri marchi fast fashion occidentali.»
Per molti anni la moda di Tokyo è stata identificata con lo street style. Penso alle ragazze kawaii di Harajuku, alle gothic lolita, ai decora boys. Fenomeni che stanno scomparendo.
W. David Marx nel suo libro “Ametora: How Japan Saved American Style”, sostiene che la causa sia nella massificazione del gusto promossa proprio dai grandi brand come Uniqlo.
«Sono d’accordo con David Marx, ma senza moralismi. La moda è sempre stata vampira, si è sempre nutrita di subculture, dai mods ai punk, dagli zazou del secondo dopoguerra al fenomeno beat.
Un tempo era la moda a dettare legge, poi è stata la strada a indicare le tendenze. Così il sistema si è appropriato dello stile delle sottoculture – tutte, da quella gay al clubbing – riproponendone, depauperati e digeriti, gli stilemi. E di fatto, spazzandole via.
In più in un momento in cui il mercato offre capi carini a prezzi accessibili e con una produzione folle che cambia ogni tre settimane, è difficile la nascita di nuove controculture caratterizzate da uno stile originale.
L’unica maniera oggi per essere un po’ contro il sistema è vestirsi basic: t shirt bianca, jeans e trench a cui aggiungere solo un accessorio particolare.
Credo che i giovani oggi stiano andando verso un consumo più semplice e di buona qualità e che cerchino magari marchi che non sfruttino o inquinino.
Io comunque spero sempre che le nuove generazioni trovino un modo nuovo per esprimere un proprio linguaggio.»
Molti grandi marchi di abbigliamento e scarpe producono linee esclusive per il mercato orientale. Nonostante la globalizzazione del gusto sembra che rimangano spiragli di originalità. Che ne pensi?
«Innanzitutto c’è una ragione somatica. Donne e uomini orientali hanno forme diverse dagli occidentali: le donne, ad esempio, hanno meno seno e in generale l’altezza media è inferiore. Serve quindi una modellistica diversa per creare un abbigliamento che si adatti ai loro corpi.
E poi c’è un aspetto culturale. I vestiti pensati per le donne giapponesi sono più casti rispetto a quelli occidentali, tendono più a suggerire che a svelare. Il nostro immaginario di veline e bellone scosciate in Giappone è ritenuto volgare.
Anche il mercato dei profumi è diverso. In Giappone l’idea di profumarsi era impensabile perché significava che puzzavi. Le cose oggi sono un po’ cambiate ma le profumazioni pensate per loro lasciano appena una vaga traccia che scompare dopo pochissimo tempo.»
Magari l’hanno pensato così evanescente per durare giusto il tempo del tragitto casa-lavoro.
«Può darsi. Certo però posso dirti che sulla metro a Tokyo non ho mai sentito odori repellenti, come invece puoi sentire qui a Milano.»
Mi sembra che i designer giapponesi sappiano conservare e attualizzare alcuni dei capi della loro tradizione. Penso alle giacche kimono e alle tabi shoes.
In Italia trovo che Marras e D&G abbiano lo stesso occhio verso il passato. Confermi questa mia impressione?
«Certo. Dolce & Gabbana vive su un mito di una Sicilia che forse non è mai esistita, Marras ad ogni sfilata apre un capitolo nuovo del suo rapporto con la Sardegna. Ma penso anche a Ferrè, di cui sono stato grande amico, molto legato alla storia dell’architettura e dell’arte barocca italiana.»
Ma tu cosa pensi delle tabi con il tacco di Maison Margiela: bellissime o azzardo di cattivo gusto?
«Sono dell’idea che siamo a un momento della nostra civiltà dove non esiste un concetto di buono o cattivo gusto. So che tu vorresti che io dicessi che sono brutte»
No, assolutamente! Io ne ho 4 paia. Ma non sono di Margiela, le ho comprate nel negozio dei muratori.
«Con il tacco?»
Ma no!!!
«Io comunque le trovo scarpe molto intelligenti. Ammetto che la prima volta che le ho viste mi ricordavano la zampa di un suino o lo zoccolo di un cavallo. Eppure Margiela è stato bravissimo, forse uno dei più grandi geni del XX secolo. Con quel tipo di calzatura tradizionale ha segnato una forte rottura. Lo stesso vale con o i kimono e gli yukata rifatti in plastica. Creava disagio pescando dalla tradizione. In questa direzione, John Galliano – attuale stilista della Maison – sta usando antichi tessuti giapponesi per la collezione uomo. Per fare “pettegolezzo”, Mamhood all’Eurovision indossava una di queste camicie.»
Nicola Formichetti è uno stilista italo giapponese. Pensi che il suo stile sia una buona sintesi fra le sue due anime?
«Assolutamente sì. In Giappone si è costantemente esposti a una competenza di opposti: da un lato raffinatezza assoluta, spirito zen, massima espressività con il minimo della materia; dall’altro lato manga, programmi televisivi assurdi, colori chiassosi.
Anche se è di formazione più anglosassone, Nicola Formichetti ha saputo fondere queste due anime.
Ha costruito il personaggio di Lady Gaga lavorando sul concetto di eleganza occidentale, ma con un effetto di stupore tra il disturbante e il divertente. Vedi ad esempio il vestito di bistecche.
La sua casa sembra la riproduzione di un cartone animato lisergico giapponese, dove ci sono pupazzi però in sottofondo c’è Mozart, in un grande mix di cultura alta, popolare e d’elite.
Da un’immagine fumettistica, eccessiva e trasgressiva è passato al creare – in collaborazione con Diesel – una linea genderless, di jeans in tela morbidissima che ha fatto indossare al corpo di ballo di New York. Ha saputo coniugare il gusto italiano per la bellezza, forte e a volte eccessiva, con l’approccio giapponese che unisce forma e funzione».
Dove trovo Mancinelli in Giappone?
«Sicuramente a Omotesando e Shibuya. Se vuoi un posto specifico: il Museo 21_21 Design Sight di Issey Miyake».
Gtvb
Foto: @davide_musto ©