I supermercati giapponesi sono un piccolo paradiso colorato.
Assomigliano alle dei Mio Mini Pony.
Il cibo da asporto sembra cucinato per un Chihuahua, le etichette sono chiassose e fluorescenti e i biscotti ricordano delle crocchette per gatti, non per il gusto, piuttosto per le dimensioni.
Ci sono un sacco di disegnini Kawaii sulle confezioni, cibi sconosciuti e bibite. Tutte cose che alla cassa adorabili inservienti ripongono in un cestino che poi la casalinga deve prendere e portare su un tavolo per imbustarle con calma e dovizia, tanto non ha fretta, perché suo marito starà facendo gli straordinari o sarà a bere con i colleghi in qualche localaccio per maschi allupati.
Nel supermercato vicino a casa mia a Nishi Shinjuku è tutto quieto e rilassato e nessuno ti guarda male se tergiversi davanti al Pos perché non trovi il bancomat dentro il borsellino.
È un’oasi di pace.
Io non vorrei mai uscire da questo posto, perché mi fa sentire integrato, ma anche in armonia con la vita. Le offerte mi aprono i chakra, gli sconti mi fanno il cuore grande.
Vorrei assaggiare tutto e infine convivere con una bustina di the verde nel reparto spezie.
Anche in Italia cammino tranquillo in mezzo ai reparti di yogurt e cereali e me ne frego della corsa alla cassa più libera. L’unica cosa che mi manda ai matti quando faccio la spesa è aprire quei sacchetti di merda che ti danno all'Esselunga , solo il Mago Otelma ci riesce. Io sto lì ore a strofinare, a sputarmi sulle mani, ma nulla, loro rimangono chiusi per rendermi la vita difficile e farmi dare dello scemo da quelli in fila.
Ma qui a Tokyo c’è la spugnetta per inumidire il dito che ti aiuta nella tua goffaggine e c'è persino il gel per disinfettare le mani.
A rovinare tutta questa spiritualità è il mio amico Marco, che urla come un pazzo, manco avesse vinto alla lotteria.
“Hai finito di gridare???”
“Dov’è il wasabi?”
“E come faccio a saperlo?”
“Sei tu la mia guida”
“Allora fai così, domani metti qui uno stand con delle caciotte e urla per una ragione”
Anche i giapponesi gridano.
Lo fanno fuori dai locali per attirare l’attenzione dei maschi alfa che si avventurano nel lussurioso quartiere Kabukichō.
Lo fanno fuori dai negozi per incuriosire timide donne che non sanno se comprare una lametta per i peli superflui o una pacchetto di fazzoletti.
Ho visto un giapponese gridare a un camionista che aveva osato fermarsi con una ruota sulle strisce pedonali, ne ho visto un altro alzare la voce per chiamare i suoi amici ubriachi fradici appesi a un semaforo. Sì, erano appesi.
Nel paese del silenzio, dove le metropolitane sono scatole di divieti e le cartacce te le devi portare a casa vige una sola regola: non disturbare.
Il sistema sociale è così normato che gli occhi delle persone vedono solo una strada: quella che li porta dal lavoro a casa.
Il Giappone è bravissimo a rimbalzare i sentimenti per trasformarli in pietanze al curry da 750 Yen.
Io e Marco oggi siamo stati a Ikebukuro, un quartiere clone di Shinjuku.
Nonostante sia il secondo snodo ferroviario di Tokyo non ha molto senso venire da queste parti, a meno non si voglia visitare Nekobukuro, il locale dove accarezzare i gatti. (QUI un resoconto semiserio)
Perché ci sono andato?
Ero in missione per un amico, che mi ha stressato talmente tanto per comprargli un oggetto a lui caro che alla fine ho ceduto alle sue pressioni, ma anche perché volevo dimostrare al mio ego che avrei potuto trovare quello che cercava in mezza giornata.
Bene, ora che faccio? Dove vado? Meglio sintonizzare il mio radar interiore. Ma qualcosa mi disturbava. Urla e fracasso mandavano in tilt la mia antenna spirituale.
In cuor mio ho sperato fosse Godzilla.
Che bello finirla qui, fra borsine di Hello Kitty e peluche. Il mio corpo verrà polverizzato dal piede del mostro nipponico. Di me rimarrà solo poltiglia, questo blog scritto male e qualche foto su Instagram. (QUI se volete seguirmi)
Mi sono voltato e ho visto correre un ragazzino in evidente stato confusionale. Ero sulla sua traiettoria.
Buttava per terra qualsiasi cosa trovasse davanti ai suoi piedi: cartelloni pubblicitari, dissuasori della sosta, cartonati dei grandi magazzini. Ha preso a calci persino un palo.
Meglio stare lontano dai giapponesi quando “gli parte la brocca”.
E adesso come mi difendo?
L’unica cosa che avevo in mano erano le 1000 mutande AIRsm di Uniqlo che Marco si era comprato.
Potrei soffocarlo con i boxer, ma quelli di Uniqlo hanno detto che indossandoli la pelle respira, quindi perderei solo tempo.
Potrei atterrarlo con un colpo di Tai chi, ma rischierei l’arresto, perché le autorità giapponesi tendono a difendere i connazionali contro qualsiasi evidenza.
Quando ha incrociato il mio sguardo l’unica cosa che ho fatto è stata gonfiarmi come He-Man, mal che vada invocherò il potere di Greyskull con delle mutande.
Ma il picchiatello ha cambiato subito direzione, spaventato dai miei portentosi muscoli. Non ha smesso però di prendere a calci le cose.
Questo mi sa che ha un collasso psico nervoso.
Prima di sparire in mezzo alla folla ha lanciato un espositore d’acciaio addosso a un ragazzo, che fuori da un ristorante cercava di attirare clienti con un Menù a buon mercato.
Il malcapitato è rimasto un a terra per un po’.
Nessuno si è avvicinato.
Ogni giorno a Ikebukuro transitano 2,7 milioni di persone eppure, ripeto, nessuno si è fermato.
L’ho fatto io, con il mio giapponese modesto.
“Daijoubu?”
Mi ha accennato un sorriso, quasi commosso. L’asse del rigore giapponese si è piegato per un attimo. Uno spiraglio di sentimento stava per far esplodere un intero quartiere.
Poi temendo di perdere il lavoro da “urlatore” il ragazzo ha ripreso la sua posizione e anche io sono scomparso davanti ai suoi occhi.
“Scusa Gabriele quelli chi sono?”
“Testimoni di Geova”
“In Giappone??????”
“Potremmo suggerirgli di usare i citofoni…così i condòmini inizierebbero a conoscersi”
GiapponeTVB
Foto Cover ©Chatnarin Pramnapan